Patologie cardiovascolari: ancora troppe barriere ostacolano la persistenza alla terapia. Serve semplificare

Le malattie cardiovascolari rappresentano, ancora oggi, la prima causa di morte nei paesi occidentali. I motivi di questo primato vanno da fattori rischio mal controllati e sottovalutati ad una scarsa aderenza alle terapie dovuta anche ad una cultura carente sul tema. Non solo. L’altro grande fattore che incide sulle morti dovute per cause cerebro-cardiovascolari è il sottoutilizzo dei trattamenti. Delle cause e delle barriere che impediscono una corretta gestione del paziente con problemi cardiovascolari si è parlato a margine del Congresso I Focus ON dell’Arca (Associazione regionale cardiologi ambulatoriali) tenutosi a Roma, il 15 e 16 marzo, grazie alla sponsorizzazione non condizionante di Piam.

In ambito cardiovascolare, nonostante la disponibilità di terapie efficaci, sicure e facilmente accessibili, i dati di real life dimostrano un sottoutilizzo dei trattamenti e una scarsa aderenza e persistenza nel tempo con conseguenze anche fatali attribuibili ad eventi cardiovascolari maggiori. Le cause sono derivanti da fattori legati al paziente, al medico e al sistema organizzativo nella sua totalità.

Tutti gli esperti sono concordi nel dire che la scarsa aderenza alla terapia è il problema più grande da affrontare e scardinare. Per fare questo servono due componenti fondamentali: innovazione ed educazione. Sul primo punto le combinazioni fisse di farmaci hanno portato grandi vantaggi non solo in termini di efficacia, ma anche in termini di semplificazione dello schema terapeutico con benefici proprio sull’aderenza e sulla qualità di vita dei pazienti. Sul secondo punto, invece, la strada da percorrere sembra essere ancora lunga.

Per Giovanni Battista Zito, presidente nazionale Arca, per parlare davvero di cultura delle patologie cardiovascolari occorre partire proprio dal termine “aderenza”. Affinché il paziente segua correttamente e nel tempo la terapia prescritta dal proprio medico, deve essere consapevole e deve conoscere i rischi della mancata assunzione dei farmaci. Il paziente deve, dunque, “vivere” la propria patologia in modo proattivo. Per queto motivo, secondo Zito, sarebbe più opportuno parlare di “adesione” alla terapia.

Non solo. Secondo Laura Casalino, presidente Arca Liguria, negli anni sono state portate avanti campagne informative che guardavano molto di più a sottolineare di demeriti di alcune classi di farmaci anziché i meriti. Girare quindi in chiave positiva l’informazione sulle patologie cardiovascolari potrebbe essere una chiave di volta per incrementare il raggiungimento dei target stabiliti dalle linee guida. Per Casalino fare cultura è fondamentale per sconfiggere quell’inerzia terapeutica che tanto caratterizza le patologie cardiovascolari.

A questo ragionamento si unisce anche Mauro Larcher, presidente Arca Trentino Alto-Adige, il quale sostiene che sarebbe opportuno cominciare a sensibilizzare sui rischi delle patologie cardiovascolari proprio dagli adulti di domani, i bambini. Partire dalle scuole per far comprendere da subito la valenza di una eventuale patologia e, di conseguenza, capire anche l’importanza di aderenza e persistenza alla terapia che, ricorda l’esperto, sono due fattori in grave difficoltà, sarebbe auspicabile. Basti pensare che solo l’aderenza al trattamento per patologie cardiovascolari è inferiore al 50%.

Offrire ad un paziente ben educato e informato una soluzione terapeutica in grado di snellire il piano terapeutico è sicuramente più efficace rispetto al fornirla ad un paziente scettico o diffidente. I dubbi sulla complessità dei regimi terapeutici in presenza di patologie concomitanti e le remore circa i farmaci, i loro effetti avversi e le interazioni farmaco-farmaco, generano infatti nei pazienti una sorta di resistenza alla terapia stessa.

È dunque fondamentale passare dei messaggi chiari e forti, come ricordato da Sergio Agosti, cardiologo della Asl 3 Genovese. Queto perché è evidente che c’è uno scollamento tra quello che succede nei trial clinici e la real life. Per ottenere gli stessi risultati serve persistenza al trattamento e, con uno schema terapeutico più semplice, e un minor numero di compresse da assumere, si possono ottenere grandi risultati, ha spiegato l’esperto.

Grazie all’associazione di diverse classi farmacologiche, ha precisato ancora Casalino, riusciamo ad avere risultati molto soddisfacenti con un numero di compresse sempre inferiore e questo può semplificare anche la vita del paziente che non rischia di sbagliare terapia.

Giovanni Esposito, direttore del Dipartimento di Scienze Cardiovascolari dell’Università Federico II di Napoli, ha fatto presente che il paziente con cardiopatia ischemica complessa o con scompenso cardiaco devono seguire una terapia farmacologica che spesso richiede l’utilizzo di molte molecole contemporaneamente. È dunque chiaro che facilitare lo schema terapeutico migliora da un lato la capacità del paziente di assumere tutta la terapia, e quindi l’aderenza terapeutica, e soprattutto vi è un miglioramento della qualità di vita.

In molti casi il paziente riesce ad effettuare quella che noi comunemente chiamiamo la terapia medica ottimale, ma purtroppo spesso rimane solo un’ipotesi, un obiettivo, invece di una reale strategia. Per questo semplificare la terapia fa in modo che il paziente possa avere il migliore outcome clinico possibile.

Come spiegato anche da Larcher, una sola compressa che contiene al suo interno due o più principi attivi diversi è in grado di offrire una copertura terapeutica anche per patologie apparentemente diverse fra loro. Inoltre, anche il frazionamento nel corso della giornata è importante perché le statistiche ci dicono che quanto più numerose sono i momenti in cui la terapia deve essere assunta, tanto maggiore è la mancata aderenza.

Per questo motivo, dunque, poter disporre di terapie farmacologiche omnicomprensive, le cosiddette polypill, a seconda del soggetto e della situazione, facilita l’assunzione e la persistenza.

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