Verso la Fase 2. Il problema dell’affidabilità dei test sierologici. Ma come stanno le cose?

È possibile andare di corsa, ma senza avere fretta? È un po’ la sfida di questi tempi, in cui lo sviluppo di farmaci e vaccini contro il coronavirus procede più rapido che mai, ma deve rispettare gli standard dei trial clinici per poter assicurare risultati affidabili. Allo stesso tempo, diverse aziende hanno messo a punto, in tempi record, test sierologici per rilevare la presenza di anticorpi contro il Sars-Cov-2 nel sangue. Anche di questi strumenti, però, va valutata l’accuratezza e l’effettiva utilità, prima di trarre, dai risultati che forniscono, delle conclusioni dal punto di vista scientifico, epidemiologico e politico-sociale.

Sapere quante persone hanno sviluppato anticorpi contro il virus consentirebbe di svolgere indagini epidemiologiche per capire effettivamente quanto il virus si diffonde, qual è la sua letalità reale, il tasso di prevalenza per fasce di età, qual è il ruolo degli asintomatici nella diffusione della malattia. Gli studi potrebbero, forse, in parte, anche fornire indizi su quale percentuale della popolazione abbia già sviluppato una certa immunità al virus. “Queste sono le risposte di cui abbiamo bisogno, e abbiamo bisogno delle risposte giuste per guidare la politica”, dichiarava il 27 marzo scorso Michael Ryan, direttore esecutivo dell’Oms per le emergenze sanitarie. L’Organizzazione mondiale della sanità ha quindi lanciato, a inizio aprile, il programma Solidarity II, uno studio che coinvolge diversi Paesi con l’obiettivo di testare campioni di sangue per valutare la presenza di anticorpi contro il virus. Oltre a questo progetto, che darà i primi risultati nei prossimi mesi, vengono condotti piccoli sondaggi “immunologici” in città di tutto il mondo, Italia compresa.

Studi del genere sono importanti, ma le risposte, come dice Ryan, devono essere quelle giuste, e a questo proposito è importante fare due considerazioni: la prima, la maggior parte dei test per rilevare gli anticorpi contro Sars-Cov-2, che hanno invaso il mercato, non è abbastanza affidabile; la seconda, anche se i test fossero affidabili, non è detto che rivelino se qualcuno sia immune alla re-infezione.

Approfondiamo questi aspetti, con l’aiuto di due articoli pubblicati di recente sulla rivista Nature.
Punto uno. Per verificarne l’accuratezza, i kit dovrebbero essere testati su gruppi di persone numerosi, centinaia di soggetti che si sono ammalati e altrettanti che non sono stati colpiti dal virus, ha spiegato a Nature Peter Collignon, medico e microbiologo di laboratorio presso la Australian National University di Canberra. Ma finora, la maggior parte delle valutazioni dei test ha coinvolto solo alcune decine di individui e gli scienziati manifestano dei dubbi sull’affidabilità, sopratutto per quanto riguarda il numero di falsi positivi che producono e che potrebbero gonfiare le stime del tasso di infezione.

Di recente è stato diffuso uno studio, condotto in California e pubblicato sulla rivista medRxiv, che suggerisce una prevalenza molto più elevata di infezione da coronavirus rispetto ai dati ufficiali suggeriti, proprio sulla base dei test sugli anticorpi. L’analisi del sangue di circa 3.300 persone ha rivelato che una persona su 66 era stata infettata da Sars-CoV-2. Sulla base di tale scoperta, i ricercatori stimano che tra i 48.000 e gli 82.000 dei circa 2 milioni di abitanti della contea siano stati infettati dal virus, nel momento in cui il numero di casi ufficiali registrati era di circa 1.000. Bisogna sottolineare, che al momento della diffusione di questi dati, lo studio non era stato sottoposto a peer review, e molti scienziati si sono mostrati scettici rispetto ai risultati ottenuti.

Gli autori dello studio hanno rilevato 2 falsi positivi su 371 campioni veri negativi, il che indicherebbe che sui 3.300 test, 50 potrebbero essere falsi positivi. Inoltre, i partecipanti sono stati reclutati utilizzando i social, quindi il campione potrebbe includere un numero più elevato di persone che pensavano di essere state esposte al virus e si sono offerte volontarie per verificarlo.

A inizio aprile è stato pubblicato uno studio analogo, condotto in Germania, in un paese di 12.000 persone. I ricercatori hanno valutato la presenza di anticorpi in circa 500 soggetti e dai test è risultato che uno su sette era stato infettato. Combinando questo dato con quelli forniti dai test diagnostici, hanno stimato che il tasso complessivo di infezione della città fosse del 15%.

Ma questo risultato potrebbe non essere indicativo di ciò che sta accadendo in tutta la Germania, secondo il virologo Christian Drosten, che dirige l’Istituto di virologia all’ospedale universitario Charité di Berlino, poiché c’è stato “un importante focolaio in quel villaggio”.

Il fatto che entrambi gli studi abbiano rilevato tassi di infezione molto più elevati di quanto suggerito dai dati ufficiali in sé non è sorprendente. Nature riporta le parole di Collignon che ricorda come il virus si stesse diffondendo negli Stati Uniti e in alcune parti d’Europa almeno un mese prima che venisse rilevata la sua diffusione nella comunità. Ciononostante, i test sugli anticorpi commerciali utilizzati in entrambi gli studi sono stati valutati utilizzando solo un piccolo numero di persone, il che potrebbe influenzare l’accuratezza dei risultati.

Punto due: l’immunità. Alcuni hanno suggerito che i test potrebbero essere utilizzati come “passaporto di immunità”, quindi chi li possiede può ricominciare a interagire con gli altri, partendo dal presupposto che gli anticorpi contro il virus impediscano una re-infezione. Questo potrebbe non essere del tutto vero. Per sviluppare “un’immunità protettiva, il corpo ha bisogno di produrre un certo tipo di anticorpo, chiamato anticorpo neutralizzante, che impedisce al virus di entrare nelle cellule”, si legge su Nature. Non sembra però che tutte le persone che si sono ammalate abbiano sviluppato questi anticorpi. Una quota (10 su 175), secondo una ricerca cinese, non produce anticorpi neutralizzanti rilevabili, quindi non è chiaro se abbiano un’immunità protettivo o no, da verificare. È comunque fondamentale, e non sempre avviene, che i test siano in grado di rilevare questi anticorpi in particolare.

Comunque possiamo “presumere che dopo l’infezione, la possibilità di contrarre una seconda infezione per due-tre mesi sia bassa”, ha aggiunto Collignon. Non sappiamo però quanto duri effettivamente questa presunta immunità.

Ma non è finita qui. Un altro fattore fondamentale per effettuare questi test è il tempismo: se un test viene eseguito troppo presto, il corpo non ha avuto il tempo di sviluppare gli anticorpi e si ottiene un falso negativo. Non sappiamo ancora con esattezza, però, dopo quanto tempo dall’infezione si sviluppano anticorpi specifici.

Risolvere tutti questi problemi richiede tempo e comporta tentativi ed errori, come sempre, in tutte le scienze. Non va dimenticato, nonostante la rapidità con cui è necessario far fronte a questa crisi.

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One Thought to “Verso la Fase 2. Il problema dell’affidabilità dei test sierologici. Ma come stanno le cose?”

  1. Giovanni Hinrichsen

    Ma tutti questi,giustificati,dubbi non rendono ancor più azzardato parlare di un vaccino?Parebbe di maggiore attualità lavorare sulle comorbities.

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