Spondiloartrite assiale: la strada da percorrere per eliminare il ritardo diagnostico e puntare sulla personalizzazione della terapia

Spondiloartrite assiale: la strada da percorrere per eliminare il ritardo diagnostico
e puntare sulla personalizzazione della terapia

La spondiloartrite assiale è una patologia comunemente sotto diagnosticata. Il mal di schiena è infatti un sintomo molto comune e molti pazienti trascurano i loro sintomi o li segnalano in ritardo. Inoltre, a volte i medici di medicina generale possono non essere consapevoli delle caratteristiche infiammatorie del mal di schiena e delle manifestazioni extra-articolari della spondiloartrite assiale. La tempestiva presa in carica del paziente da parte del reumatologo diventa quindi fondamentale per consentire una diagnosi corretta ed evitare l’utilizzo improprio delle risorse per il Servizio Sanitario nazionale.

Dei problemi correlati alla spondiloartrite assiale e delle possibili strade da seguire per migliorare la presa in carico del paziente con questa patologia si è parlato nel corso dell’Impact Factor dal titolo Spondiloartrite assiale: l’importanza di una diagnosi precoce e di un trattamento personalizzato. Ospite il Professor Francesco Ciccia, Ordinario di reumatologia dell’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”.

“Il ritardo diagnostico è un problema molto rilevante, direi sociale”, ha esordito l’esperto. “Le spondiloartriti assiali sono delle patologie infiammatorie che coinvolgono principalmente la colonna ed il sintomo fondamentale è un mal di schiena che si differenzia da quello tipico dell’artrosi perché questo compare in soggetti in età giovane, al di sotto dei 40-45 anni”, con delle caratteristiche peculiari. Parliamo di un “dolore prevalentemente notturno, che peggiora con il riposo e al risveglio e che ha una ottima risposta agli antinfiammatori non steroidei”. Occorre quindi saper inquadrare il dolore in questi parametri per arrivare ad una diagnosi di spondiloartrite.

“Oggi le spondiloartriti assiali, in tutta Europa, hanno un ritardo diagnostico di circa 7-8 anni e alcuni fattori sembrerebbero essere pregiudicanti nel ricevere una diagnosi precoce, come per esempio l’essere donna o le condizioni socio-economiche”. Il rischio di inappropriatezza è dietro l’angolo: “questi pazienti rischiano anche di andare dal chirurgo ortopedico per risolvere problematiche erniali che sono concomitanti ma non sono la causa del dolore infiammatorio”, con conseguente ritardo diagnostico appunto con elevati costi sociali.

Diagnosi precoce e trattamento precoce sono dunque auspicabili. “Più precoce è il trattamento, maggiori sono le possibilità di ottenere una non progressione del danno radiografico”, ha detto Ciccia precisando che “l’infiammazione nel paziente con spondilite assiale ha come esito la formazione di ponti ossei che finisco con il determinare la fusione completa della colonna portando all’immobilità del paziente”. Tutto ciò si può evitare solamente con un intervento precoce con i farmaci adeguati.

Per quanto riguarda questa patologia, a differenza di altre aree come per esempio l’oncologia, “siamo molto lontani da quella che è la medicina di precisione in quanto purtroppo non abbiamo dei bio-marcatori che ci consentono di identificare quale paziente risponderà meglio ad un trattamento rispetto ad un altro”, ha proseguito l’esperto. Ci sono però alcune condizioni che possono guidare la scelta dei farmaci da utilizzare come per esempio “l’obesità, la presenza di un coinvolgimento cutaneo come la psoriasi, l’essere donna con desiderio di gravidanza imminente”. Oggi quindi la pratica è quella del “trial and error, cioè del provare un farmaco utilizzando queste strategie empiriche che abbiamo a disposizione e se il paziente non risponde cambiamo meccanismo di azione e utilizziamo un’altra tipologia di farmaco nella speranza che questo funzioni”, ha spiegato Ciccia. La speranza però è quello che nel prossimo futuro ci siano dei marcatori in grado di prevedere l’effetto di un farmaco su un determinato paziente.

La donna è il soggetto che risente maggiormente del ritardo diagnostico delle spondiloartriti e questo per vari motivi. “C’è una problematica culturale perché si tende a immaginare che le spondiloartriti siano patologie prevalentemente del maschio e non della femmina”, quando in realtà non è così. C’è poi un problema di inappropriatezza. “Qualche anno fa è stato coniato il termine spondilite assiale non radiografica in cui appunto ancora non ci sono segni radiografici di malattia. Quello che si è visto è che la spondilite assiale non radiografica è appannaggio uguale dell’uomo e della donna con un carico di sofferenza uguale rispetto ad una spondilite anchilosante ma non propriamente riconosciuta. Molto spesso si immagina che la donna con dolore sia affetta da fibromialgia e questo è un problema grosso perché parliamo di donne giovani in cui il dolore cronico diventa una esperienza totalmente invalidante”. Per quanto riguarda il trattamento, “le donne tendono a rispondere un po’ meno bene ad alcuni farmaci” e forse questo dipende, ha proseguito l’esperto, da differenti meccanismi fisiopatologici.

Ma i pazienti con spondiloartrite assiale che raggiungono una remissione mantenuta nel tempo possono pensare di sospendere o ridurre il trattamento? “La letteratura in passato fino ad uno studio recente, lo studio C-OPTIMISE, era manchevole di dati in questo senso. Questo studio ha valutato una molecola, il certolizumab pegol, e ha valutato la possibilità che pazienti in trattamento con questo farmaco che andavano incontro a remissione potessero sospendere o ridurre il dosaggio del farmaco. Lo studio dimostra che è possibile ridurre il dosaggio del farmaco in pazienti che abbiano ottenuto la remissione”, mentre è più rischioso sospendere totalmente il trattamento perché vi è una “elevata probabilità di riattivazione della malattia”. Ciò che emerge però dallo studio è “dobbiamo ridurre il dosaggio del farmaco nei pazienti stabilmente in remissione”, ha precisato ancora Ciccia.

Molto del carico della malattia è legato anche a manifestazioni di vario tipo. “Il paziente può avere manifestazioni cutanee, infiammazione intestinale con malattia di Crohn o rettocolite ulcerosa, manifestazioni oculari, cardiache e polmonari. I farmaci che abbiamo a disposizione – ha spiegato l’esperto – consentono un controllo adeguato anche delle manifestazioni extra-articolari”.

Per una corretta gestione delle complicanze articolari è auspicabile un approccio multidisciplinare. “Serve la creazione di ambulatori condivisi con gastroenterologi, cardiologi, oftalmologi che consenta di avere una sinergia sul paziente che viene trattato al meglio. L’altra interazione fondamentale riguarda la componente riabilitativa”.



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