Perdita di memoria sintomo di patologie psichiatriche e degenerative

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Depressione, disturbi bipolari, schizofrenia, Alzheimer queste alcune delle patologie che vedono come comune denominatore la perdita di memoria e la conseguente progressiva alienazione e perdita di identità.

Proprio la demenza è uno dei problemi emergenti in salute pubblica. Nel 2005 si contavano 25 milioni di pazienti con un trend di crescita di 5 milioni l’anno nel mondo. Il declino cognitivo è correlato all’età ed infatti interessa il 5% degli over 65 e raggiunge il 50% degli ultra 90enni. Da non sottovalutare sono anche i costi della più comune forma di demenza, l’Alzheimer, che sono stimati in 100 miliardi di dollari l’anno solo negli Usa. La novità è che non si tratta di un destino ineluttabile: tra il 40 e il 50% degli ultra 90enni conserva intatte le proprie facoltà e non mostra segni di declino cognitivo. Inoltre, una recente review su 23 studi ha messo in relazione le due patologie, depressione e demenza, dimostrando che su oltre 50mila uomini e donne anziani, quelli che hanno riferito una diagnosi di depressione avevano una possibilità doppia di sviluppare demenza e il 65% in più di avere l’Alzheimer. Altro studio che va nella stessa direzione è stato pubblicato su Neurology nel quale sono state seguite per 8 anni 1764 persone che non presentavano problemi di memoria. Al termine dello studio si è emerso che i soggetti che sviluppavano un declino cognitivo anche lieve mostravano anche sintomi di depressione già prima che la demenza fosse diagnosticata, e che tra i segni più evidenti c’era proprio una diminuzione di memoria.

“L’ipotesi è che trattare la depressione possa diminuire l’incidenza di demenza e che gli antidepressivi non siano una terapia per l’Alzheimer, ma rappresentino una forma di ‘protezione’. Il trattamento per la depressione infatti ha un effetto sia sul recupero del ‘funzionamento’ individuale e sociale dell’individuo che di stimolo sulla plasticità cerebrale e la creazione di nuovi connessioni grazie a un’azione neurotrofica che stimola la produzione di fattori di crescita”, spiega Marco Andrea Riva, del Dipartimento di Scienze Farmacologiche e Biomolecolari dell’Università di Milano. “I nuovi farmaci antidepressivi multi-modali hanno un meccanismo di azione diverso rispetto a quelli tradizionali come gli SSRi. Non solo aumentano i livelli sinaptici di serotonina, ma modulano significativamente anche altri neurotrasmettitori, tra cui il glutammato, con un’attività importante su due aree cerebrali: l’ippocampo e la corteccia prefrontale. Il risultato è sia una modulazione del tono dell’umore che il miglioramento dei sintomi cognitivi (memoria, attenzione, focalizzazione), che rappresentano un aspetto importante nei disturbi psichici. Infatti, le terapie precedenti determinavano spesso una remissione parziale della sintomatologia, che rendeva il paziente più a rischio di recidive. Abbiamo necessità di ristabilire il paziente nel suo ‘funzionamento’ affettivo ma anche in quello intellettuale, risultato che possiamo ottenere se agiamo in maniera integrata su più bersagli cellulari”, conclude il farmacologo.

Le più colpite da demenza e Alzheimer sono le donne, anziane con un basso livello di scolarità, uno status sociale modesto, uno stile di vita non sano e che hanno sofferto di malattie vascolari o metaboliche. È ciò che risulta da un lungo studio prospettico condotto dalla Professoressa Laura Fratiglioni, Director of the Aging Research Center presso il Karolinska Institutet di Stoccolma: “Il Kungsholmen Project ha preso in carico la popolazione anziana di un quartiere di Stoccolma: 1810 soggetti con più di 75 anni, arruolati nel 1987 e controllati ogni 3 anni. Il dato più sorprendente è che la scarsa educazione è direttamente proporzionale al rischio di sviluppare una qualche forma di demenza. L’effetto protettivo di una educazione avanzata può perfino controbilanciare il rischio genetico. – spiega la professoressa – Il gruppo di soggetti con un percorso scolastico di 2 anni, massimo 7, era a maggior rischio di presentare deficit cognitivi già a 65 anni. Questo dato ci suggerisce l’importanza delle prime due decadi di vita nello sviluppo di un cervello ricco di neuroni e dotato di plasticità, ossia la capacità di creare connessioni tra le varie cellule nervose. Un vantaggio che sembra avere effetti a lungo termine”. Esiste comunque la possibilità di compensare questo inizio non vantaggioso nella vita, attraverso attività  mentalmente complesse nella vita adulta e un coinvolgimento in attività fisiche, mentali e sociali una volta raggiunta l’età anziana.

Questi e molti altri ancora gli argomenti trattati durante la conferenza ‘Memory in the Diseased Brain’, promossa dall’Accademia Pontificia delle Scienze e dedicata ad approfondire il legame tra meccanismi alla base dei processi cognitivi e memoria e le patologie del sistema nervoso centrale. L’evento, cui hanno partecipato alcuni tra i maggiori esperti mondiali, è stato realizzato grazie al contributo incondizionato di Lundbeck Italia, azienda farmaceutica completamente dedicata alla ricerca e sviluppo di terapie per il trattamento di patologie del sistema nervoso centrale.

“Certamente l’aumento dell’aspettativa di vita influisce in modo deciso sulle malattie età correlate come ad esempio l’Alzheimer”, sottolinea Roberto Bernabei, Geriatra del Policlinico Gemelli di Roma. “Prima la malattia aveva una diffusione molto diversa perché difficilmente si arrivava a raggiungere i 70, 80, 90 anni, età in cui la patologia esplode. Se non vogliamo diventare tutti centenari, ma con la malattia della demenza o dell’Alzheimer, dobbiamo puntare sulla prevenzione e su quei fattori che vanno ad intaccare la possibilità di avere una vecchiaia cognitivamente integra come fumo, alcool, obesità e pressione alta”.

“I problemi della memoria non sono legati esclusivamente ai disturbi cognitivi relativi all’invecchiamento; nonostante questo l’industria investe maggiormente sulle patologie ad altissimo impatto epidemiologico con particolare attenzione a quelle legate alla demenza”, ricorda Valentina Mantua, medico psichiatra dell’Agenzia Italiana del Farmaco. “Per questo motivo AIFA, con il suo team scientifico che si occupa di SNC, è ben rappresentata a livelli dell’Agenzia Europea dei Medicinali in quanto, per la regolamentazione europea, le nuove terapie per i disturbi di memoria all’interno delle malattie neurodegenerative vengono approvate a livello centrale e quindi in Europa. La memoria è una dimensione transnosografica e i deficit cognitivi si ritrovano anche nelle patologie affettive come la depressione o i disturbi bipolari. – aggiunge Mantua – Pertanto, le agenzie regolatorie hanno la possibilità di approvare dei farmaci per sottopopolazioni cioè, ad esempio, i disturbi cognitivi della schizofrenia sono riconosciuti come una dimensione e quindi come un target, un’indicazione”.

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