Linfomi: l’innovazione c’è, ora bisogna saperla usare bene e coinvolgere di più i pazienti

I linfomi hanno un’incidenza di circa 20 casi ogni 100.000 abitanti e costituiscono il 4-5% di tutti i tipi di cancro. Si tratta del tumore ematologico più frequente, che si colloca subito dopo i cosiddetti big killer (cancro al polmone, al colon, alla mammella, alla prostata…). L’impatto della malattia sul Servizio sanitario nazionale è importante per il numero di persone colpite e negli ultimi anni questa branca della medicina si è distinta per l’innovazione terapeutica che ha saputo mettere in campo. Al National Summit del 14 settembre scorso, “L’innovazione al servizio del paziente con linfoma”, realizzato con il contributo non condizionante di Roche, si è parlato proprio del ruolo del paziente nel percorso di cura e nel rapporto con l’innovazione.

Davide Petruzzelli, presidente de La Lampada di Aladino Onlus, ha esordito osservando come “durante la pandemia la macchina clinica abbia funzionato piuttosto bene. I bisogni dei pazienti hanno riguardato soprattutto la gestione della paura: di recarsi in ospedale, di contrarre il Covid-19, di non essere curati nel modo corretto e così via. Un ruolo importante è stato giocato dalla comunicazione e la necessità principale per questi pazienti fragili è stata sentirsi rassicurati”.

Va detto che negli ultimi anni è aumentato molto il coinvolgimento del paziente ematologico nel percorso di cura. Una persona consapevole può fare la differenza, all’interno di una terapia: “Anche se otteniamo una vittoria straordinaria con i farmaci, possiamo avere dei problemi nella cosiddetta compliance, cioè nell’accettazione da parte dei pazienti perché manca un’adeguata comprensione – ha sottolineato Marco Vignetti, presidente della Fondazione Ginema e vice presidente nazionale Ail – Se manca la fiducia e l’accettazione in un certo tipo di approccio terapeutico non va bene perché si cercano approcci alternativi. Oggi per lo più c’è un’adesione e una collaborazione tra team clinico e pazienti che si è sviluppata negli anni”.

Le armi a disposizione
“Oggi l’armamentario terapeutico disponibile per combattere i linfomi è sempre più complesso e articolato – ha spiegato Marco Ladetto, Associato di Ematologia, Università del Piemonte Orientale, Azienda ospedaliera Santi Antonio e Biagio e Cesare Arrigo, Alessandria – e questo si traduce in un netto miglioramento nella prognosi di questi malati”. Alle classiche tecniche chemioterapiche e radioterapiche si sono infatti aggiunti gli anticorpi monoclonali, i farmaci target, gli anticorpi bispecifici e, recentemente, le Car-T. Dal punto di vista dell’accessibilità, secondo gli esperti il nostro Paese non è messo male: “L’Aifa è più lenta rispetto a altre Agenzie nel rendere disponibile un farmaco innovativo – ha ricordato Paolo Corradini, direttore della Divisione di Ematologia, Fondazione Irccs Istituto Nazionale dei Tumori; Università degli Studi di Milano – Tuttavia, questo ha anche un risvolto positivo: le molecole, una volta approvate, sono disponibili in tutte le ematologie del Paese. Di solito, inoltre, la lunga negoziazione porta a prezzi competitivi, più sostenibili per il nostro Ssn”.

A livello di presa in carico, le differenze territoriali, che pure esistono, sono mitigate da una rete ematologica costruita negli anni con l’obiettivo di permettere a tutti di effettuare un percorso diagnostico terapeutico identico, a prescindere dal luogo di residenza. “Un sistema perfettibile, ma sicuramente all’avanguardia, che andrebbe finanziato in modo sistematico”, ha osservato Vignetti.

I linfomi e il Covid
Francesco Passamonti è professore di Ematologia all’Università dell’Insubria e direttore dell’Ematologia di Varese. È stato autore di uno dei primi studi sugli effetti del Covid sui pazienti onco-ematologici. “Nel nostro lavoro è emerso che la mortalità dei pazienti ematologici, comprese le persone con linfomi, che contraeva il Covid-19 è stata del 37% – ha riportato – Accanto a questo dato allarmante, il fatto che, almeno nella prima fase della pandemia, l’accesso alle cure è diminuito, ritardando i programmi. Le neoplasie ematologiche e lo stato di avanzamento del linfoma costituiscono un fattore di rischio di mortalità da Covid, da qui il monito a tutta la comunità scientifica a mantenere alto nella pandemia il livello di cura per il trattamento dei linfomi, il paziente va curato e va mantenuta una risposta il più alta possibile”. Cosa fare, oggi, per proteggere maggiormente questa popolazione? “Il vaccino è senz’altro il nostro alleato più prezioso – ha affermato l’esperto – Unito al rispetto delle regole quali distanziamento e mascherine per creare un ambiente Covid-free attorno al paziente e, in caso di tampone positivo, all’accesso immediato agli anticorpi monoclonali, ci permetterà di gestire meglio questo aspetto”, ha assicurato.

Per Corradini, grazie al dialogo tra ematologi e Ministero, “durante la pandemia nessuna Ematologia è diventata reparto Covid. Questo ci ha permesso di assicurare la cura a tutti coloro che avevano un’urgenza. Anche per quanto riguarda i trapianti con cellule staminali emopoietiche, abbiamo avuto un calo del 10-15%, abbastanza contenuto a fronte di altri Paesi che hanno registrato un -40-60%”. Corradini ha poi ricordato che, dai dati disponibili, “il 50% dei pazienti affetti da linfoma che sono entro 12 mesi dal loro trattamento, anche con anticorpi monoclonali, non svilupperà anticorpi contro il Covid. Tuttavia, una fetta molto consistente (75-80%) svilupperà un’immunità T, che probabilmente garantirà una certa protezione”. L’entità di quest’ultima è al momento sconosciuta: “Ci mancano i dati, dobbiamo avere il tempo di fare gli studi. Oggi sappiamo sul Covid ciò che normalmente sappiamo su una malattia dopo 10 anni”, ha ricordato l’ematologo.

Intanto, è stata confermata la terza dose di vaccino per le persone fragili come i pazienti ematologici. Attualmente, i dati mostrano che con tre somministrazioni la protezione è assicurata. In particolare, il Ministero della Salute prevede la dose booster in questa popolazione di pazienti almeno sei mesi dopo l’ultima dose.

In chiusura, Petruzzelli ha auspicato un maggior coinvolgimento dei pazienti, che dovrebbe essere strutturato e sistematico, in tutto il percorso, dalla ricerca al letto del paziente. “Gli ex pazienti portano con sé una scienza laica, che non si può studiare su alcun libro di testo e che è quella che deriva dall’aver vissuto sulla propria pelle la malattia – ha osservato – In futuro si dovranno compiere scelte etiche e di sostenibilità: chi può definire il valore di un percorso terapeutico meglio di chi l’ha sperimentato sulla propria pelle?”.

Tutte le persone intervenute al panel hanno inoltre espresso la volontà della comunità ematologica di fare un passo indietro sulle rispettive posizioni per poter dialogare più facilmente e riuscire a raggiungere insieme gli obiettivi più grandi, come assicurare a tutti l’accesso e il trattamento più opportuno.

di Michela Perrone

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