Infermiera, così il ricovero cambia le persone. Anche chi negava il virus

Nessuno dei malati di Covid-19 ricoverato in terapia intensiva sa “come ha fatto a contagiarsi o ammette di non aver preso precauzioni. Ma quello che vediamo e’ che tutti, quando escono, sono persone diverse, anche chi negava o era dubbioso sull’esistenza del virus. Anzi, alcuni di questi sono tra quelli che più  cercavano di tirare su il morale degli altri pazienti vicini”. A raccontarlo all’ANSA è Elena Manzin, 50 anni, infermiera dell’ospedale Humanitas di Milano.    Da 30 anni infermiera, Elena lavora sia al pronto soccorso per i pazienti non Covid, sia all’Emergency Hospital 19 allestito dall’Humanias per i malati di Covid-19. “In mezzo a questa pandemia vedo i pazienti con gli occhi più spaventati che io abbia mai incontrato in tutta la mia vita professionale. Eppure sono proprio quegli occhi che mi danno la forza di andare avanti: dicono che quelle persone vogliono lottare, credono in noi. Tutti i pazienti, giovani o vecchi, vogliono vivere e lottano per questo, si sostengono a vicenda”.

Dalle parole di Elena emerge chiaramente che il suo lavoro non è  solo di assistenza terapeutica e clinica, ma richiede una forte dose di psicologia, per aiutare i malati di Covid, isolati da tutto per giorni o settimane. “Cerchiamo di andare incontro alle loro necessità , li facciamo comunicare con i parenti dandogli il tablet e parliamo anche noi con i loro familiari, in modo da rassicurare entrambi”, spiega. E se vedono che qualcuno è molto abbattuto “gli andiamo subito vicino e facciamo tanta psicologia. Tutti lavoriamo per migliorare la situazione e infondere coraggio a chi per un momento perde la speranza – continua – Sono occhi che ingraziano per quello che possiamo fare per loro, occhi di persone che sanno che ci siamo solo noi in quel momento a poter stare loro accanto”.

Ma quello che ha notato è che il ricovero cambia questi malati, come persone. “Già dopo 2-3 giorni sono diversi – riferisce – anche chi negava il virus. Uno dei pazienti che più mi ha dato soddisfazione, è stato un ragazzo di 17 anni obeso, che per 3 giorni ha anche dovuto indossare il casco Cpap, molto fastidioso, ancora di più per chi ha problemi di obesità. Lui era uno di quelli che credeva poco al virus ma poi ha cambiato idea ed era sempre sorridente. Quando gli abbiamo tolto il casco era felicissimo perchè poteva andare avanti a vivere e tirava su di morale le persone che aveva vicino”.    E anche tra i colleghi, nonostante la fatica, i turni massacranti e il lavoro cambiato, conclude Manzin, “non c’è mai stata tanta coesione come ora. Ci aiutiamo e sosteniamo a vicenda, è il punto cardine per lavorare contro il Covid”.

di Adele Lapertosa

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