Dalle molecole allo sviluppo di nuove terapie: passato presente e futuro dei “sensori dell’ossigeno” scoperti dai Nobel

Le cellule del nostro organismo percepiscono i livelli di ossigeno presenti al loro interno e si regolano di conseguenza. C’è poco ossigeno? Bisogna aumentare la quantità di globuli rossi nel sangue. Come? Rilasciando l’eritropoietina, un ormone secreto dai reni che stimola la produzione dei globuli rossi. Ma come fanno le cellule a sapere quanto ossigeno c’è? Quali sono le molecole coinvolte in questo processo di percezione e risposta? Ecco, è a partire da questa domanda precisa, specifica, quasi semplice, che è iniziata, negli anni ’90, quella serie di scoperte che hanno valso il premio Nobel per la medicina 2019 a Gregg Semenza, Sir Peter Ratcliffe e William Kaelin Jr. Questi tre medici, ricercatori, hanno risposto alla domanda e con le loro scoperte hanno aperto la strada a moltissime applicazioni terapeutiche nel campo delle malattie cardiovascolari e dell’oncologia.

Negli anni ’90, il lavoro dei tre scienziati ha permesso di identificare i “sensori dell’ossigeno” all’interno delle cellule. Semenza, attualmente direttore del Vascular Research Program al John Hopkins Institute for Cell Engineering, ha isolato, HIF1α, una proteina che viene degradata in presenza di ossigeno e che, quando i livelli cellulari del prezioso gas diminuiscono, non viene distrutta, ma si lega ad un altra proteina, ARNT. Il complesso HIF (HIF1α e ARNT) agisce sul Dna, favorendo la produzione di eritropoietina, un ormone prodotto a livello dei reni che stimola la formazione di globuli rossi. Kaelin, professore all’Harvard Medical School, ha invece isolato e studiato il gene VHL, coinvolto nella sindrome di Von Hippel-Lindau e Ratcliffe, ora direttore del Clinical Research al Francis Crick Institute, ha rivelato il legame tra le due scoperte: è proprio la proteina VHL che degrada HIF1α in presenza di ossigeno. Il ricercatore inglese e l’equipe di Kaelin hanno poi scoperto, attraverso ricerche indipendenti tra di loro, che la degradazione dipende da una modificazione di HIF1α. Quando c’è l’ossigeno la proteina è idrolizzata, quindi è leggermente modificata dall’aggiunta di una molecola di idrogeno e ossigeno. In queste condizioni VHL può legarsi a essa, e distruggerla. Senza ossigeno, la modificazione non avviene e il legame tra VHL e HIF1α non è possibile. La molecola resta quindi nella cellula e può svolgere il suo lavoro. Ecco svelato il mistero, rivelati gli attori molecolari della risposta all’ipossia. Rompicapo risolto. E poi?

Le molteplici applicazioni terapeutiche della scoperta: dal cancro alle malattie cardiovascolari

Il sistema scoperto dai Nobel è molto elegante, molto sensibile alle variazioni dei livelli di ossigeno e fondamentale in molti processi fisiologici, come l’esercizio fisico, lo sviluppo embrionale o la risposta dell’organismo ad altitudini elevate. I tre ricercatori, però, hanno vinto il premio nobel perché, al di là della loro bellezza, queste scoperte hanno avuto, nei decenni successivi, un impatto importante sulla medicina, permettendo il “miglioramento della vita delle persone”, attraverso una moltitudine di applicazioni terapeutiche, dal cancro alle malattie cardiovascolari, come ha affermato Semenza, parlando ai giornalisti nell’aula del Karolinska Institutet, pochi giorni prima della premiazione ufficiale del 10 dicembre.

“Per un medico ricercatore è veramente un sogno il fatto di poter collegare degli aspetti molecolari fondamentali alle condizioni cliniche”, ha aggiunto.
“I sensori molecolari dell’ossigeno” sono infatti diventati nei decenni bersaglio di innumerevoli farmaci. Di recente è stata dimostrata l’efficacia degli inibitori degli enzimi che idrolizzano HIF1α nel trattamento dell’anemia. Uno di questi farmaci, ha precisato Kaelin, è stato approvato di recente in Cina e in Giappone. “Presto seguirà una domanda di approvazione anche negli Stati Uniti e in Europa”.

Se in alcuni casi è interessante, da un punto di vista terapeutico, aumentare la quantità di HIF1α, in altri bisogna inibirla. La molecola ha infatti, “un suo lato oscuro”, ha precisato Semenza. Livelli elevati di HIF1α, portano ad un aumento di globuli rossi che può provocare la formazione di coaguli, infarti, ictus e ipertensione polmonare. Quantità elevate della molecola sono anche associate ad una mortalità più elevata nei pazienti malati di tumore. Sembra infatti che essa conferisca alle cellule cancerose una protezione dal sistema immunitario e dalla chemioterapia. In questi casi una strategia efficace sarebbe proprio quella di inibire l’azione di HIF. Sono stati messi a punto alcuni farmaci, ha spiegato Semenza, che impediscono al complesso HIF di formarsi, ma le molecole fin ora identificate sono state testate solo sugli animali e “non sono adatte all’uso clinico sugli uomini”. Continua quindi la ricerca di nuovi inibitori che possano rendere le cellule cancerose più vulnerabili.

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