
Lo studio
Secondo gli autori, le donne generalmente hanno risposte immunitarie innate e adattative più forti degli uomini, ma rappresentano anche l’80% di tutti i pazienti con malattie autoimmuni sistemiche. Per lo studio, Conforti e colleghi hanno usato i dati raccolti in 13 studi randomizzati su inibitori di PD-1, nivolumab e pembrolizumab, sei studi su inibitori CTLA-4, ipilimumab e tremelimumab, e uno con entrambe le classi di inibitori di checkpoint. I trattamenti sono stati usati per la terapia contro melanoma, carcinoma polmonare non a piccole cellule, carcinoma di testa e collo, carcinoma polmonare a piccole cellule, carcinoma delle cellule renali, tumori uroteliali, tumori gastrici e mesotelioma.
I risultati
Gli uomini avrebbero avuto un rischio di morte ridotto del 28% con l’immunoterapia, contro una riduzione del rischio del 14% tra le donne, rispetto ai controlli. E i risultati sarebbero stati simili nelle analisi fatte per tipologia di cancro, linea di trattamento e tipo di inibitore del checkpoint. “Da questo studio si possono trarre die conclusioni – sottolineano gli autori – il primo è che il sesso dei pazienti deve essere preso in considerazione nella valutazione del rischio/beneficio della terapia”. Il secondo punto “è che i ricercatori che stanno progettando nuovi studi sull’immunoterapia dovrebbero focalizzarsi maggiormente sulle donne, per evitare di allargare i risultati ottenuti sulla popolazione maschile, a quella femminile”, hanno precisato Conforti e colleghi. Mentre secondo Walter Malorni, del National Institute of Health’s Center for Gender-Specific Medicine di Roma, la novità di questo studio è che “dimostra che anche nell’immunoterapia la disparità sessuale può essere rilevante”.
Fonte: Lancet Oncology
di Will Boggs
(Versione italiana Quotidiano Sanità/ Popular Science)
