Tumori: nell’armamentario terapeutico la termoablazione

Oltre a chirurgia, chemioterapia, radioterapia e immunoterapia, tra le possibilità terapeutiche per la cura dei tumori c’è la termoablazione. Campo di ricerca in cui l’esperienza italiana ha fatto scuola, stime prevedono che entro il 2014 la termoablazione farà registrare un incremento di circa il 10,2% sia con obiettivo curativo che con finalità palliative. A fare il punto della situazione sono gli esperti del Policlinico Universitario Campus Bio-Medico, centro di riferimento per il centro-sud per la cura dei tumori e per l’esperienza che vanta nelle tecniche di termoablazione e crioablazione, e che si avvale di un vero e proprio tumor board in grado di garantire il miglior percorso – paziente con tutte le opzioni terapeutiche necessarie per un approccio multidisciplinare della patologia.

La termoablazione è una tecnica di intervento mininvasiva basata sullo sviluppo di calore all’interno di una lesione ‘target’, raggiungendo una temperatura superiore a 60 gradi. In oncologia porta alla denaturazione delle proteine intracellulari e la dissoluzione dei lipidi di membrana, provocando la morte cellulare della cellula tumorale. Queste procedure possono essere effettuate sia nei confronti di tumori primitivi, che secondari dei tessuti parenchimali che possono interessare fegato, rene, polmone e ossa. Inoltre, la termoablazione può essere effettuata anche per i tumori benigni ed in particolare della tiroide e dell’utero.

Esplicato in modo molto semplice, “la termoablazione prevede l’inserimento di aghi all’interno della zona interessata dal tumore”, spiega Rosario Francesco Grasso, Responsabile della UOS Radiologia Interventistica del Policlinico Universitario Campus Bio-Medico. “Viene dunque liberata energia che induce la necrosi delle cellule tumorali. Il valore aggiunto della tecnica sta nel fatto che è in grado di arrivare alla necrosi in tempi ridotti”, aggiunge l’esperto. Tanto più la regione interessata dal tumore sarà circoscritta e limitata ai 4 centimetri, tanto più aumentano le possibilità di utilizzare questa tecnica di intervento

“A parte casi specifici come l’epatocarcinoma primario – dichiara il Bruno Vincenzi, Professore associato di oncologia presso il Policlinico Universitario Campus Bio-Medico – la termoablazione non è sostitutiva, ma complementare alla chirurgia tradizionale e ai trattamenti medici, ed ha indicazioni ben precise, come il volume, il numero e la localizzazione delle lesioni tumorali. Per questo motivo è fondamentale che il paziente sia preso in carico da un team multidisciplinare. L’importante è, infatti, definire l’appropriatezza terapeutica: capire, cioè, qual è il paziente giusto e il momento giusto per eseguire questa procedura”. La scelta del paziente giusto è dunque fondamentale. “Nella nostra realtà, ogni caso di tumore viene discusso in sede di tumor board“, prosegue l’esperto, proprio per definire la migliore strategia terapeutica da seguire. “Il tumor board è costituito da un oncologo, un chirurgo, un radioterapista e un radiologo interventista, in funzione del tipo di tumore, della sua localizzazione ed estensione e delle condizioni generali di salute del paziente”, precisa Grasso.

Come dicevamo, “più la lesione è piccola, più probabilità ci sono di utilizzare la termoablazione”, prosegue Grasso. “Il trattamento avviene in presenza di anestesia e prevede due notti di ricovero per il paziente, salvo complicanze. Il miglior paziente leggibile a questo trattamento è quello oligometastatico che si presta a trattamenti multipli. questo per quanto riguarda un tipo di intervento curativo. C’è poi un altro gruppo di pazienti che possono essere sottoposti a termoablazione: circa il 20% dei pazienti con tumore soffre di dolore oncologico e grazie alle tecniche di ablazione è stato provato che si può controllare il dolore a 24 settimane”, aggiunge Grasso.

“Non esiste un numero preciso di quanti pazienti possono beneficiare della termoablazione – precisa ancora Vincenzi – tutto dipende dalla patologia di base. Prendiamo ad esempio il tumore del rene – prosegue – questa neoplasia può essere di vario tipo e quindi non c’è una procedura universale comune a tutti i tumori del rene. Vero è, però, che in alcuni casi la termoablazione può portare a ritardare la dialisi anche di 20 anni”. Inoltre, per quanto riguarda un tumore del rene sotto i 3 cm, il successo clinico della termoablazione è del 98% circa.

Negli ultimi anni poi, è emerso un altro punto di forza della termoablazione, che consiste nella sua capacità di causare un’importante risposta infiammatoria capace di stimolare il sistema immunitario a reagire contro le cellule tumorali ancora presenti nell’area, riducendo, quindi, anche lesioni non trattate.

“E’ importante, dunque, che il paziente e l’opinione pubblica siano consapevoli del fatto che stiamo parlando di una metodica consolidata, recepita dalle Linee Guida delle Società Scientifiche nazionali ed internazionali, con una robusta letteratura scientifica che ne sostiene l’efficacia e la sicurezza”, conclude Grasso. Le criticità riguardano il fatto che non ci sia ancora un’informazione appropriata e diffusa della procedura, non sia garantito un accesso equo alla terapia in tutte le Regioni e non ci siano percorsi specifici.

 

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