
Lo studio
Per la sperimentazione, nota come ReBUILD, Green e colleghi hanno arruolato pazienti clinicamente stabili affetti da sclerosi multipla recidivante, in terapia con immunomodulatori. Tutti i pazienti avevano la malattia da meno di 15 anni e una preesistente demielinizzazione con danno visivo definito dal ritardo nei Potenziali Evocati Visivi (VEP – Visual Evoked Potential) di almeno 118 millisecondi in almeno un occhio. A 50 pazienti è stata somministrata clemastina, 5,36 mg due volte al giorno, per 90 giorni e poi placebo per altri 60 giorni. Mentre un altro gruppo è stato trattato prima con placebo per 90 giorni e poi con l’antistaminico, per i restanti 60. Il risultato primario riguardava gli effetti proprio sui VEP.
I risultati
Il trattamento con clemastina avrebbe significativamente ridotti il ritardo di latenza medio di 1,7 millisecondi per occhio rispetto al valore iniziale, un effetto che durava anche quando i pazienti passavano dal farmaco al placebo, “suggerendo che la riparazione della mielina era indotta dal farmaco”. Un miglioramento della latenza superiore ai 6 millisecondi durante il trattamento sarebbe stato riscontrato nel 16% dei pazienti del primo gruppo e nel 26% del secondo, trattati prima con placebo. A parte la stanchezza, i pazienti non avrebbero riferito eventi avversi gravi durante la terapia.
Le considerazioni degli esperti
“Il farmaco è noto per l’attivazione della maturazione delle cellule produttrici di mielina. E anche se avrebbe un modesto effetto sui risultati elettrofisiologici, ci sarebbe un benefico clinico, dovuto all’attivazione delle staminali a maturare e costruire nuova mielina, dunque non è necessario alcun trapianto – precisa Green – Che non si parli di “Effetto Lazzaro”, farmaci come la clemastina non sono in grado di ripristinare lesioni presenti da molto tempo e con danni all’assone. Nessuno può rimielinizzare un assone che non c’è. Una delle innovazioni di questo studio è stato quello di selezionare pazienti, utilizzando la tomografia ottica computerizzata, che avessero sufficienti assoni residui a partire dai quali potesse essere effettuata e misurata una rimielinizzazione”. Secondo Jeffrey Cohen del Neurologic Institute of Cleveland Clinic, in Ohio, “lo studio è importante perché potrebbe aiutare a identificare un approccio diverso per promuovere la riparazione del danno”. Mentre Farrah Meteen, del Massachusetts General Hospital e della Harvard Medical School di Boston, ha sottolineato che “i risultati di questo studio sono interessanti anche perché si tratta di un farmaco largamente disponibile ed economico per i pazienti, anche se bisognerà aspettare trial più ampi”.
Fonte: Lancet
di Lorraine Janeczko
(Versione italiana Quotidiano Sanità/ Popular Science)
