Leucemia linfoblastica: con classificazione cellule si valuta meglio rischio di recidiva

(Reuters Health) – La classificazione delle singole cellule leucemiche, a seconda della loro somiglianza con i diversi stadi di sviluppo delle cellule B, migliorerebbe la capacità di prevedere la probabilità di andare incontro a recidiva nei pazienti che soffrono di leucemia linfoblastica acuta da precursori delle cellule B. A evidenziarlo è stato un gruppo di ricercatori guidato da Kara Lynn Davis, della Stanford University, che hanno pubblicato una ricerca su Nature Medicine.

 

La metodologia 
I ricercatori americani hanno eseguito l’analisi citometrica di campioni di cellule prelevati da pazienti affetti da leucemia linfoblastica acuta da precursori delle cellule B e hanno quindi classificato ogni cellula sulla base del percorso evolutivo di una normale cellula B. Usando un sistema di intelligenza artificiale, il team ha quindi costruito un modello predittivo di recidiva, identificando sei caratteristiche cellulari. Sulla base di queste, il team ha poi suddiviso un gruppo di pazienti in base al loro ultimo stato di recidiva documentato.

Lo studio
Davis e colleghi hanno quindi individuato due tipologie di pazienti: in un gruppo le cellule erano capaci di rispondere alla stimolazione ex vivo e questa caratteristica è stata associata a remissione, mentre un secondo gruppo è stato caratterizzato da una maggiore presenza di cellula con il signaling RPS6 attivo, che è stato associato a recidiva. La combinazione di questo modello al rischio residuo minimo o al modello di rischio finale ha migliorato in modo significativo la stratificazione del paziente a cinque anni dalla diagnosi.

I commenti
“L’idea che il cancro sia una malattia composta da molte cellule diverse ma correlate, che hanno diverse potenzialità, è fondamentale per cambiare l’approccio terapeutico”, sottolinea Davis. “La natura eterogenea del cancro richiede che venga studiato a livello di singola cellula e connessa alle caratteristiche cliniche, in modo da poter individuare e capire meglio le popolazioni di cellule tumorale associate a esiti clinici favorevoli o scarsi”. “Il nostro lavoro suggerisce che potremmo essere in grado di predire in modo più preciso i rischi”, continua Davis, che come passo successivo vede la possibilità di applicare questo modello a un più ampio numero di campioni per provare ad applicarne la predittività in ambito clinico. Dal punto di vista terapeutico, “stiamo lavorando per capire meglio perché le cellule che abbiamo identificato sono resistenti ai trattamento, in modo da indirizzare al meglio le terapie”, conclude la ricercatrice.

Fonte: Nature Medicine
Will Boggs
(Versione italiana Quotidiano Sanità/Popular Science)

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