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EBOLA
LA MALATTIA DEL DIAVOLO

LUCA TRINGALI

Tutta la vita sul pianeta Terra si basa sulla catena alimentare: una specie ne mangia un'altra. Per secoli abbiamo pensato di essere alla cima di questa catena, l'ultimo anello. Ma ci sbagliavamo: già nella seconda metà del 1700, Lazzaro Spallanzani aveva intuito l'esistenza di esseri microscopici. Oggi sappiamo che alla cima della catena, sopra di noi, c'è un tipo di esseri non propriamente viventi: i virus. Già: il virus è il predatore ultimo dell'uomo (e, in generale, di tutto ciò che è vivente). Ma i virus, di per se, non sono vivi. Non sono costituiti da cellule. Un virus può essere considerato fondamentalmente una scatola contenente del codice genetico ed un paio di altre molecole (generalmente proteine) ma non dispone delle strutture cellulari che vengono solitamente associate con la vita. Ha bisogno di sfruttare le strutture di un essere vivente vero e proprio per potersi riprodurre, e ciò fa di lui un parassita obbligato.

Oggi, i ricercatori dell'Istituto Nazionale Malattie Infettive intitolato proprio a Lazzaro Spallanzani sono stati chiamati dall'Unione Europea e dall'Organizzazione Mondiale della Sanità a costruire un laboratorio da campo in Sierra Leone per studiare uno dei virus più temuti dei nostri tempi: l'Ebola.

Ma il virus è davvero così pericoloso come appare dai lanci delle agenzie di stampa, oppure è sopravvalutato? Cominciamo col comprendere come funzioni questo parassita: innanzitutto si tratta di un virus con probabile origine animale, che è poi passato all'uomo in qualche modo. Ma non ne esiste alcuna prova: si tratta di una semplice supposizione, e forse non sapremo mai se sia passato prima dagli animali all'uomo o viceversa.

Esistono ben cinque specie dell'Ebolavirus (famiglia delle Filoviridae, cui appartiene anche il virus Marburg), e sono identificate con il nome del luogo in cui sono state identificate per la prima volta: Zaïre, Sudan, Reston, Taï Forest (o Costa d'Avorio), e Bundibugyo. Nessuna di queste specie può diffondersi per via aerea, anche se vi sono dubbi sul Reston ebolavirus (che è però l'unica specie quasi innocua per gli esseri umani), e la trasmissione del virus avviene per contatto diretto dei fluidi e tessuti corporei (sangue e liquido seminale in primis). Non è, dunque, facilissimo diffondere il contagio: è necessario toccare del sangue infetto od avere un rapporto sessuale con una persona che si è ammalata ed è guarita da non più di sette settimane. La semplice azione di stare vicino ad un malato, dunque, non è sufficiente per essere contagiati. Inoltre, le persone infette non sono contagiose prima di sviluppare i sintomi della malattia, che può rimanere in incubazione silenziosa per 21 giorni.

Il funerale che ha scatenato l'Ebola
Alla ricerca dell'origine dell'epidemia.

Inoltre, il virus può sopravvivere in un liquido (per esempio un sacchetto di sangue) od in forma asciutta (un fazzoletto con macchie di sangue) per alcuni giorni, anche se non si è ancora stabilito un tempo massimo di resistenza del parassita in queste condizioni. Ma, come fa notare il rapporto del Centro Europeo per la Prevenzione delle Malattie, il virus viene inattivato dalle radiazioni ultraviolette (prodotte dal Sole), se scaldato a 60°C per un'ora, oppure bollito per cinque minuti. Inoltre, è reso quasi inoffensivo dall'ipoclorito di sodio (comune candeggina, la stessa sostanza che viene inserita negli acquedotti italiani per sterilizzare l'acqua) ed altri disinfettanti. Il congelamento, invece, non inattiva il virus. Le normali procedure sanitarie che, in tutta Europa, sono ormai associate al trattamento dei malati o degli alimenti, possono bloccare senza alcuna fatica l'Ebola: non servirebbe alcuno strumento speciale. Eppure, già nel 2001 era esplosa un'importante epidemia in Uganda, anche se con dimensioni minori di quella attuale. Per quale motivo, dunque, nei paesi del continente africano risulta così difficile arginare il contagio?

Innanzitutto, la specie di virus responsabile dell'attuale epidemia è lo Zaire ebolavirus, uno dei più pericolosi. I primi casi sono comparsi a Guèckèdou e Macenta, in Guinea (sul confine con Liberia e Sierra Leone). Ma i sintomi iniziali del virus possono facilmente essere confusi con quelli di altre malattie: il numero relativamente grande di malati con sintomi identici, però, ha allarmato il governo della Guinea, che ha chiesto aiuto a Medici Senza Frontiere (MSF). Una settimana più tardi, MSF ha cominciato a lavorare con i pazienti, prelevando dei campioni di sangue da analizzare. E proprio tramite queste analisi eseguite non tramite immunofluorescenza, come si sente spesso dire, ma attraverso una tecnica chiamata RealTime PCR (che consente la moltiplicazione del codice genetico) ed al sequenziamento del genoma dei virus, si è scoperto che il responsabile dell'infezione è lo Zaire ebolavirus. Dei primi 15 pazienti controllati, soltanto due sono riusciti a sopravvivere: una ragazza di 16 anni, che però ha avuto un aborto, ed una di 28, che presentava febbre, diarrea, vomito, ed emorragie. Si presume, però, che i primi casi si siano verificati già nel dicembre 2013, rimanendo tuttavia ignoti alle autorità (si sospetta di una bambina di 2 anni di età deceduta con sintomi compatibili all'Ebola).

Saverio Bellizzi
epidemiologo di Medici Senza Frontiere

E proprio questo è il motivo principale della difficoltà di arginare il contagio: le autorità sanitarie non hanno il pieno controllo della situazione. La popolazione tende a non dichiarare o addirittura a nascondere i malati di Ebola, perché non si fida dei medici e preferisce rivolgersi alle “cure tradizionali”. Dobbiamo infatti ricordare che il contagio si diffonde, come abbiamo già visto, nelle situazioni in cui le norme igieniche di base non sono pienamente rispettate, cioè proprio nei comparti più poveri (economicamente parlando) della società. In altre parole, la stessa fetta di popolazione che dispone di minori conoscenze scientifiche e che proprio per questo motivo ripone la propria fiducia principalmente nelle cure tradizionali, praticate da stregoni e sciamani, piuttosto che nei medici, soprattutto se si tratta di medici europei che appaiono come sconosciuti. A tale proposito il dottor Saverio Bellizzi, epidemiologo di Médecins Sans Frontières, ci ha spiegato che: “C'è da dire innanzitutto che in questi tre paesi finora non c'era mai stata l'Ebola. Di conseguenza è per loro veramente difficile capire l'esistenza della malattia. Infatti spesso mi hanno parlato di 'malattia del diavolo' e si rivolgono principalmente ai curatori tradizionali. Molti non riconoscono la malattia e soprattutto all'inizio si ribellavano perché pensavano che tutto fosse un pretesto per fare sacrifici o esperimenti sulle persone... e si è arrivati in certi momenti, come a marzo a Macenta, con un gruppo di persone che tirava pietre contro le macchine di Médecins Sans Frontières.”

In fondo non siamo tanto diversi: nel continente africano, le persone rifiutano le cure mediche perché convinte che i medici “stranieri” non portino nulla di buono. A volte il personale medico europeo è stato addirittura minacciato dalla popolazione, convinta che fossero portatori di una maledizione. In Europa, dal canto suo, il morbillo sta uccidendo decine di bambini perché i alcuni genitori, convinti di un complotto da parte delle case farmaceutiche, si rifiutano di farli vaccinare.

Lo scorso agosto, in Liberia, un ospedale statale è stato attaccato da un commando armato che ha fatto fuggire i malati: gli attaccanti ritengono che l'Ebola non esista e sia solo una invenzione del governo di Monrovia per controllare la popolazione e lucrare sulle spese sanitarie. Hanno abbattuto le porte con dei bastoni e saccheggiato la clinica. Sembra che addirittura 29 pazienti affetti da Ebolavirus siano stati messi in fuga. Il problema, ora, è che queste persone (oltre a non ricevere alcun aiuto medico per se stesse) diffonderanno il contagio. I medici in Guinea, Liberia, e Sierra Leone, hanno due nemici: il virus Ebola, e l'ignoranza di nozioni medico-scientifiche della popolazione. Se è difficile che il primo dei due arrivi anche nel continente europeo, il secondo è qui in Italia già da molti anni, a quanto pare dalle notizie incontrollate che sono circolate sul web italiano negli ultimi mesi proprio sulla questione del virus Ebola. Questi attacchi nei confronti dei medici non sono, a volte, del tutto spontanei: il “merito”, infatti, è spesso del guru di passaggio. Bellizzi, che è stato in Guinea alcune settimane fa e tra poco si recherà nella devastata Liberia, continua a raccontarci che “si sono rivoltati contro di noi anche e soprattutto perché ci sono dei sobillatori nella società, che avevano una certa autorevolezza ed hanno aizzato delle piccole folle di persone. È molto interessante in quanto, come nostra strategia, molti di questi sobillatori sono stati poi formati, educati, e portati dalla nostra parte, dalla parte della Croce Rossa, 'utilizzandoli' per la sensibilizzazione della popolazione.”

Inoltre, per quanto riguarda l'Ebola, la situazione è peggiorata dalle tradizioni di sepoltura: non è un caso che la popolazione femminile sia la più colpita dal contagio. Secondo la tradizione, infatti, sono proprio le donne ad occuparsi della sepoltura dei morti, e non viene presa alcuna precauzione (guanti, sterilizzazione, eccetera...). Questo significa che se un componente di una famiglia si ammala di Ebola, in breve tempo tutte le donne del nucleo familiare verranno contagiate: prima durante la cura dell'infermo, e poi durante i preparativi della sepoltura. “In quei paesi - continua Bellizzi - è la donna che lava il corpo della donna deceduta, e l'uomo che si occupa del corpo dell'uomo. Però spesso sono più le donne, perché ci sono le co-spose (qui la poligamia è legale) e spesso un uomo ha da due a quattro mogli. Quando una donna si ammala sono le co-spose che si prendono cura di lei. E questo amplifica la diffusione del contagio. In più, sono colpiti i neonati per via del latte materno, ed i bambini perché spesso dormono nello stesso letto con una persona malata, per esempio il nipote con il nonno.”

Massimo Galeotti
l'infermiere di MSF che ha assistito Mary

È proprio quello che è successo a Mary: suo padre si è ammalato ed è venuto a mancare proprio a causa dell'Ebolavirus. Come prevede la tradizione, il suo corpo è stato esposto innanzi alla famiglia, che lo ha salutato toccandolo. In questo modo, la moglie e le tre figlie sono state contagiate. La donna è spirata pochi giorni dopo, seguita in breve tempo dalla figlia di 7 anni. Mary e Jetta, rispettivamente di 13 e 10 anni, hanno resistito ancora, finché Jetta non ha ceduto alla malattia. La ragazza più grande, invece, pur presentando sintomi della malattia sembrava resistere. Ma aver perso l'intera famiglia nel giro di pochi giorni, e per una malattia tanto crudele, l'aveva provata psicologicamente: non voleva più mangiare. Massimo Galeotti, l'infermiere di MSF che la stava accudendo, si sforzava di convincerla a mangiare. Nella tenda in cui la ragazza era ricoverata, con indosso la sua tuta anticontaminazione, una sorta di sauna ambulante, Galeotti ha tenuto la mano della ragazza per ore, dicendole che sarebbe rimasto lì accanto a lei fino a che non avesse mangiato qualcosa.

Mary ritorna al suo paese, mentre gli operatori di MSF spiegano alla popolazione che la ragazza non è più malata e può quindi essere nuovamente abbracciata.
Poi, visto che tutto sembrava inutile, ha cominciato a parlarle in italiano. La ragazza, ovviamente, non poteva capirlo, ma forse proprio per il fatto di essere madrelingua, e per la musicalità che il nostro linguaggio porta con se, l'infermiere è riuscito a far arrivare alle orecchie della ragazza un concetto che va al di là delle semplici parole utilizzate per esprimerlo: che a lui importava veramente della vita di quella ragazza. Per la prima volta da quando il virus aveva spazzato via la sua famiglia, Mary ha capito che c'era qualcuno, al mondo, che si preoccupava sinceramente per lei. Galeotti stava ormai sudando, e la sua tuta aveva il vetro del visore completamente appannato dal vapore del suo respiro, che ormai diventava pesante. Doveva uscire dalla tenda ma, nel momento in cui cercò di alzarsi si accorse che Mary, finalmente, lo stava tenendo per una manica e che aveva cominciato a parlare. Un'altra paziente ha tradotto le parole della ragazza per l'infermiere: Mary voleva fare un bagno. Raccolte le sue ultime energie, Galeotti ha cominciato ad aiutare la ragazza a lavarsi. Alla fine, l'infermiere ha detto alla ragazzina: “ io ho fatto un grande sforzo per farti fare il bagno, ed ora ti chiedo di fare lo stesso per mangiare”. Solo in quel momento Mary, molto lentamente, ha cominciato a mangiare del riso. Nei giorni successivi, la ragazza è riuscita a nutrirsi con sempre minore difficoltà, finché non è arrivata la notizia che Galeotti stava aspettando: Mary è riuscita a vincere l'Ebola. Mary fa parte di quel 26% di persone che in Guinea è riuscito a sopravvivere ad una infezione di Ebola ed ora è immune dal virus. Lei stessa potrebbe aiutare altre persone a guarire donando sangue: si è infatti notato che, con trasfusioni di siero sanguigno (che, fondamentalmente, è il plasma) da pazienti immuni all'Ebola, le probabilità di guarigione per chi sta sviluppando la malattia aumentano.

Giuseppe Ippolito
direttore scientifico dell'ospedale Spallanzani

Giuseppe Ippolito, il direttore scientifico dello Spallanzani, ci spiega che l'utilizzo di siero “è una pratica adottata fin dalla prima epidemia. Si tratta di siero di convalescente, cioè siero di persone che hanno superato la malattia con la propria risposta immune.” A tale proposito, il dottor Bellizzi ci ha confermato che “chi sopravvive è immune al virus, ma non è ben chiaro per quanto tempo. Sicuramente è immune per questa epidemia, però non è detto che se capiterà una epidemia tra 5-10 anni sia protetto, anche se fosse dello stesso tipo di virus (cioè lo Zaire, n.d.r.).” Il meccanismo è, dunque, simile a quello dei vaccini: serve un “richiamo”, altrimenti la protezione non può persistere.

Lo Zaire ebolavirus ha una mortalità che arriva al 90%, e questo ha dato spunto a molti scrittori per storie di bioterrorismo basate proprio su questo virus. In fondo, un agente patogeno che uccide il 90% delle sue vittime e per il quale non esiste ne un vaccino ne una cura, può spaventare molto. Ma questo virus non è realmente adatto al bioterrorismo, e proprio per il suo tasso di mortalità molto alto: se gli abitanti di una città venissero contagiati, infatti, probabilmente morirebbero tutti prima di poter diffondere l'infezione in altri paesi. Per fermare il virus, basta isolare i malati. Del resto, nonostante i problemi di controllo dei malati che vi sono nei paesi dell'Africa, i numeri parlano chiaro: in sei mesi del 2014 sono morte un migliaio di persone. Anche supponendo che il numero reale, contando anche i casi sconosciuti agli operatori sanitari, sia doppio, si arriva a poco più di 2000 persone in sei mesi. Nello stesso tempo, la dissenteria ne ha uccise 300.000, e la coppia dissenteria-colera ha provocato la morte di più di un milione di persone in tutto il mondo (secondo l'organizzazione mondiale della sanità).

Per lo stesso motivo, come ci conferma il direttore scientifico dello Spallanzani Giuseppe Ippolito, non è assolutamente realistico pensare che il virus possa arrivare in Italia tramite uno dei tristemente frequenti “barconi” di immigrati clandestini: l'elevata mortalità ucciderebbe tutti gli occupanti dell'imbarcazione ben prima che questi possano arrivare sulle coste italiane, rendendo quindi il virus inoffensivo.

Il rischio, per gli europei, è legato piuttosto a persone che decidono di viaggiare in aereo nei paesi colpiti dal virus (Guinea, Liberia, Sierra Leone). Ma la probabilità di una epidemia in Europa, anche considerando l'ipotesi che uno sciocco “turista d'avventura” si rechi nel continente africano in questi giorni e venga infettato dall'Ebola tornando poi a casa come se nulla fosse, è praticamente pari a zero, considerando gli standard sanitari comunemente adottati nel nostro continente.

L'epidemiologo Bellizzi ci spiega che “se parliamo di impatto, è molto minore a quello di una epidemia di colera. Il problema, qui, è che la mortalità è estremamente preoccupante, nel senso che l'epidemia di colera è facilmente gestibile. In questo caso, si parla dello Zaire Ebolavirus e tutte le categorie di persone hanno una mortalità molto alta. Ciò che preoccupa, al di là dell'impatto, è quindi la mortalità della malattia stessa, ed il fatto che non c'è alcuna terapia. Ciò che è estremamente importante è la limitazione dell'epidemia, perché non c'è nessuna cura.”

Il caso Ebola ci dimostra quanto sia importante continuare la ricerca anche in campi apparentemente poco utili, come lo studio di un vaccino per una malattia poco diffusa. Perché quella malattia potrebbe tornare alla ribalta in qualsiasi momento. E allora saremo felici di avere delle persone che, avendo già studiato il microorganismo responsabile dell'infezione, possono lavorare su un vaccino o su una cura senza dover partire da zero. “Un vaccino - sostiene il professor Ippolito - potrebbe essere realmente disponibile nel 2015, ed avvantaggiarsi di una procedura accelerata di sperimentazione.” Sono infatti diversi i farmaci elaborati finora: i due più famosi sono Zmapp (realizzato con contributi principalmente americani) ed il vaccino realizzato da GSK (una multinazionale europea, il prodotto si chiama Chad3Ebola-Zaire). Il primo è già stato iniettato su alcuni volontari, mentre per l'altro le procedure di sperimentazione su esseri umani cominceranno nei primi mesi del 2015. Tutto ciò non sarebbe stato possibile senza le ricerche compiute in questi anni, decenni, in cui il virus Ebola non aveva grande rilevanza mediatica. Va detto che Zmapp non è un vero e proprio vaccino, ma una miscela di anticorpi monoclonali, ed ha quindi effetto curativo ma non necessariamente preventivo: è ancora tutto da dimostrare, e ne sapremo qualcosa soltanto nei prossimi mesi.

Lo stesso discorso vale per una possibile cura, basata su una molecola chiamata BCX4430, che è un analogo sintetico (cioè realizzato in laboratorio) dell'adenosina, uno dei nucleosidi in grado di legarsi alla timidina (se nel DNA) od all'uridina (se nell'RNA), anch'essi nucleosidi. Si tratta di una procedura sperimentale, testata per ora soltanto su roditori e primati, ma il professor Ippolito ha commentato: “credo che in una situazione di emergenza come questa, potrebbe essere utile utilizzarla negli esseri umani con un uso compassionevole. È questo che, verosimilmente, l'OMS farà.” Ovviamente, questo non significa un utilizzo indiscriminato della procedura su esseri umani: semplicemente, la sperimentazione potrà cominciare sui malati che lo richiederanno, e dovrà essere compiuta sotto il controllo della comunità scientifica. Per capire come possa funzionare questa cura dobbiamo comprendere il meccanismo di azione del virus.

La molecola BCX4430 è un analogo sintetico dell'adenosina. Puoi scaricare il suo modello tridimensionale.

L'ebolavirus è costituito da una membrana glicoproteica che forma una sorta di “scatola”, la cui forma ricorda il budello con cui viene racchiusa una salsiccia. Dentro questa membrana di proteine, è contenuto il codice genetico del virus. Questo codice è di tipo RNA, ed è relativamente breve: contiene le informazioni necessarie per la replicazione del virus. Parte del codice “spunta” dalla membrana del virus, ed in cima vi è posto un particolare enzima: un RNA polimerasi. Lo scopo di questo enzima è facilitare la traduzione del codice genetico del virus in RNA messaggero (anche chiamato mRNA), per consentirne la replicazione sfruttando le strutture della cellula infettata. L'infezione avviene in modo abbastanza semplice: prima di tutto, le glicoproteine della membrana del virus si legano a quelle di una cellula “vittima” (di solito si tratta di un monocita). Il contatto permette la fusione tra le due membrane, ed in questo modo il contenuto del virus (cioè il suo codice genetico con l'enzima RNA polimerasi) entra nel citoplasma della cellula vittima. Se non vi è chiaro come questo accada, basta un piccolo esperimento: prendete un piatto fondo e riempitelo con dell'acqua. Aggiungete poi due gocce d'olio in due punti ben distinti del piatto. Muovendo il piatto stesso, poi, provate a far avvicinare tra loro le gocce d'olio: appena queste verranno in contatto, la più piccola entrerà a far parte della più grande.

Nel momento in cui il codice genetico del virus (anche chiamato -ssRNA) ed il suo RNA polimerasi entrano nel citoplasma della cellula vittima, l'enzima può cominciare a tradurre il codice del virus in RNA messaggero. Ormai è solo questione di tempo: prima o poi, l'mRNA prodotto dall'enzima polimerasi entrerà nel ribosoma della cellula vittima, che sarà suo malgrado costretto ad eseguirlo. L'RNA messaggero è una sorta di elenco di istruzioni per la costruzione di proteine. Possiamo immaginare il ribosoma come una macchina che costruisce braccialetti di corallo: si tratta di una macchina programmabile, come un computer, quindi possiamo fornirgli un codice molto semplice del tipo “inizio, corallo rosso, corallo nero, corallo rosso, corallo verde, eccetera..., fine” ed il ribosoma eseguirà la sequenza, producendo il braccialetto che vogliamo. Il braccialetto, nella nostra metafora, è una proteina.

Un modello del virus Ebola realizzato nel 2011 dal progetto VisualScience.
Visto che le proteine sono i componenti fondamentali di un virus (o di una cellula), l'mRNA virale contiene di fatto tutte le istruzioni per costruire una copia perfetta del virus stesso. Per essere precisi, l'RNA messaggero fa produrre alla cellula infettata sia le glicoproteine del “virus copia”, sia delle proteine che, a loro volta, si occupano di gestire la copia del codice genetico originale del virus (cioè il -ssRNA). Una volta che sono state prodotte le glicoproteine del virus, i suoi enzimi e il suo -ssRNA, basta assemblare il tutto per ottenere un organismo identico all'originale: questo avverrà automaticamente, è solo questione di tempo. È un meccanismo estremamente subdolo: come se un bracciale di coralli potesse ordinare alla macchina che costruisce braccialetti “adesso fotocopiami”. È evidente che in questo modo il virus è in grado di riprodursi utilizzando le strutture (il ribosoma) della cellula che ha attaccato.

Quando l'Ebolavirus si riproduce, non fa altro che creare una sua “copia” all'interno di una cellula. Il nuovo parassita avvicinandosi alla membrana cellulare, con un processo chiamato “budding”, si spinge verso l'esterno liberandosi ed andando ad infettare una nuova cellula. Per fare ciò, “strappa” una porzione della membrana glicoproteica della cellula stessa, la quale ripara immediatamente il danno. Il problema è che in questo modo, a lungo andare, la membrana della cellula “vittima” si riduce progressivamente di dimensioni finché diventa troppo piccola per garantire il funzionamento di tutte le strutture cellulari. Quando si verifica questa situazione, la cellula muore. Le cellule che vengono normalmente colpite dal virus Ebola sono quelle del tessuto endoteliale, tessuto che riveste i vasi sanguigni; gli epatociti, ovvero le cellule che compongono il fegato e i fagociti, cioè i globuli bianchi normalmente deputati alla distruzione degli elementi pericolosi per il corpo.

L'uccisione delle cellule endoteliali da parte del virus spiega, dunque, le emorragie: se vengono a mancare i mattoncini che costituiscono le condutture in cui scorre il sangue, è inevitabile che il fluido fuoriesca. Questo spiega il significato di febbre emorragica. Questo vale almeno in linea di principio. Il reale meccanismo non è molto chiaro, perché vi sono molti altri fattori in gioco: il dottor Bellizzi ci ha fatto l'esempio “dell'infiammazione, che aumenta la permeabilità della membrana stessa; inoltre, si deve considerare la vasodilatazione.” In più, è possibile che la morte dei fagociti rilasci delle citochine: si tratta di proteine che possono indurre la morte delle cellule vicine e la permeabilizzazione delle membrane, amplificando dunque l'effetto distruttivo (anche se questa è ancora soltanto una teoria). Gli ammalati possono morire per uno shock ipovolemico (diminuzione drastica del volume di sangue, dovuta alle emorragie) oppure per una sindrome da disfunzione multi-organo (cioè troppi organi smettono di funzionare contemporaneamente perché le loro cellule sono ormai impegnate a riprodurre il codice virale). Ma, come ci ricorda Bellizzi, “anche qui la situazione è molto variegata: molti pazienti muoiono anche 'solo' per un'emorragia encefalica. A volte le emorragie interne portano ad una insufficienza renale.”

La molecola BCX4430, che sembra non avere particolari effetti collaterali essendo un buon sostituto dell'adenosina (componente del codice genetico di tutti gli esseri viventi), è in grado di inibire la RNA polimerasi virale, tipica del virus Ebola e del Marburg o Maburg (altro virus responsabile di febbri emorragiche). In questo modo, il virus non è in grado di produrre il codice mRNA necessario ad iniziare la sua riproduzione, ed è destinato ad essere eliminato dal corpo del malato. Abbiamo infatti visto che tutto comincia con l'azione dell'enzima polimerasi, senza il quale il codice -ssRNA del virus non viene tradotto in mRNA (l'unico leggibile dal ribosoma della cellula vittima). Il solo codice -ssRNA, infatti, è praticamente innocuo: senza la RNA polimerasi non può causare problemi. Nei test eseguiti su roditori e primati sono state ottenute percentuali di guarigione vicine al 100% nel caso di trattamento con questa molecola per iniezione intramuscolare entro 48 ore dall'infezione, e vicine al 30% (dopo 15 giorni) se somministrata entro 120 dall'infezione.

Per poter ottenere una vera cura, però, sono necessari altri studi: come abbiamo detto, tutti i rimedi in cantiere solo assolutamente sperimentali. Questo vale anche per il siero ZMapp, di produzione americana ed iniettato su tre missionari che sono stati contagiati mentre assistevano dei malati. Uno dei tre, purtroppo, è deceduto poco dopo avere ricevuto il siero, non se ne conosce ancora il motivo. Gli altri due, invece, sono guariti dall'infezione mentre ulteriori pazienti sono tutt'ora in cura con lo stesso siero. Il direttore scientifico dello Spallanzani ci ricorda, giustamente, che “l'impiego contemporaneo di più strategie terapeutiche non consente di dire se è Zmapp che ha funzionato”. Il dottor Brantly, uno dei due pazienti curati con Zmapp, infatti, era stato trattato anche con le trasfusioni di siero sanguigno. È proprio per ampliare le conoscenze di questo virus, in modo da ottenere un vaccino od una cura “definitivi”, che l'istituto Spallanzani sta preparando un laboratorio da campo avanzato per la Sierra Leone. “Il laboratorio mobile - prosegue il professore Ippolito - avrà il compito di analizzare i campioni dei casi sospetti, e si aggiunge a quello operativo in Guinea Conakry al quale lo Spallazani partecipa con i propri virologi (già 6 persone dal marzo 2014).

“Questo laboratorio - continua -è un concentrato di tecnologie che consentono di manipolare in condizioni di emergenza virus altamente pericolosi e si basa sulla capacità di virologi esperti, appositamente formati per lavorare insieme in situazioni di disagio come quelle africane in corso di epidemie.” I ricercatori che sono andati e che andranno in Sierra Leone, hanno partecipato nel mese di agosto, ad un corso intensivo di preparazione, per essere pronti ad affrontare le difficili condizioni (soprattutto organizzative e logistiche) che si troveranno a dover fronteggiare.

Gli operatori sanitari di MSF Italia, intanto, continuano a lavorare senza pausa nei paesi colpiti dall'infezione. In questo momento, riferisce Bellizzi, sul territorio vi sono 7 operatori italiani di Medici Senza Frontiere, e dall'inizio dell'epidemia ben 24 persone si sono recate in quei luoghi. Ogni operatore rimane per 4-5 settimane al massimo, perché i ritmi sono massacranti: in certi casi addirittura 12 ore di lavoro. Le tute protettive rendono il lavoro più sicuro ma anche più faticoso: “con la tuta - ammette Bellizzi - si può stare al massimo 20 minuti, mezz'ora, perché si suda tantissimo.” Anche la pressione psicologica è altissima: non possono toccare nessun'altra persona, inclusi colleghi e familiari, dalla partenza fino a 21 giorni dal loro rientro in Italia. “La prima volta che scendi, e non hai esperienza, hai proprio paura - continua a raccontare Bellizzi - ma in realtà quasi immediatamente, quando si conosce bene il contagio e tutte le dinamiche, e soprattutto rispettando le procedure sanitarie, le paure alla fine scendono molto. Ci sono delle procedure che, se rispettate, ti proteggono in modo molto sostanzioso.”

Ormai, Medici Senza Frontiere è allo stremo, sta esaurendo le proprie forze, per ammissione dello stesso presidente di MSF Italia Loris De Filippi. Chiunque può però aiutare gli operatori sanitari visitando il sito dell'emergenza (www.medicisenzafrontiere.it/emergenzaebola) e finanziando gli ospedali.




LE FEBBRI EMORRAGICHE

Ebola è la più famosa ma, purtroppo, esistono diverse altre febbri emorragiche: abbiamo già citato il virus Marburg,. Tutte le febbri di questo tipo attualmente conosciute sono causate da quattro famiglie di virus: filovirus (Ebola e Marburg), arenavirus (a cui appartengono ben otto specie differenti), bunyavirus (un virus di questa famiglia provoca la febbre Congo-Crimea), e flavivirus (responsabili tra l'altro anche delle non emorragiche Dengue e “febbre gialla”, oltre che della Epatite C). Ci sarebbe anche la famiglia dei paramyxoviridae, che però causa principalmente morbillo e parotite, ed è estremamente raro che possa innescare febbri emorragiche. Queste quattro famiglie di virus sono sparse per tutto il mondo: stranamente, però, non sembrano essere molto presenti in Europa ,se facciamo eccezione per il virus Puumala (che prende il nome da un comune Finlandese) ed alcuni casi di importazione dai confini sud-orientali. I virus responsabili delle febbri emorragiche sono stati trovati in quasi tutta l'Africa, nell'Asia (dalla Russia alla Cina ed al Giappone), in Oceania (soprattutto in Australia), ed in America. Per quanto riguarda il continente Americano, si possono trovare alcune specie di questi virus sia nella parte meridionale (Bolivia e Venezuela, per esempio) che in quella settentrionale (Messico e Stati Uniti, anche se raramente). Nell'America Settentrionale si può trovare il virus della febbre Dengue, che può provocare emorragie in meno dell'1% dei casi. In pratica, esiste un virus da febbre emorragica in tutte le zone più popolate del pianeta, tranne l'Europa centro-meridionale (in cui si trova anche l'Italia): questa sembra non essere un territorio particolarmente gradito ai virus delle febbri emorragiche. Questa diffusione mondiale ci dimostra ancora una volta uno dei corollari della teoria dell'evoluzione: un meccanismo che funziona può utilizzato da organismi differenti, anche se non sono nemmeno mai venuti a contatto tra loro. I virus Hendra (Australia) e Nipah (Malesia) non sono probabilmente collegati in modo diretto, cioè non discendono l'uno dall'altro (uno non è effetto di mutazione dell'altro). Eppure, sono molto simili nel comportamento. Non solo: tutti questi virus responsabili di febbri emorragiche sono virus a RNA, le membrane di tutti loro sono ricoperte da uno strato di acidi grassi, e si diffondono più o meno nello stesso modo. Ciò significa che non importa se ci si trova in Australia od in Malesia: il modo “giusto” per costruire un virus da febbre emorragica è sempre lo stesso, quindi per quanto le condizioni possano cambiare, l'evoluzione porterà alla formazione di virus simili.

In una tabella completa delle febbri emorragiche causate da virus si capisce subito perché Ebola e Marburg siano le due più conosciute.

C'È MOLTA ITALIA NELLA LOTTA ALL'EBOLA

Nella lotta al virus Ebola ed alla sua attuale epidemia, l'Italia è all'avanguardia. Sono diverse le strutture di ricerca del nostro paese che si occupano della questione, con risultati incoraggianti, e su tutti i fronti più importanti. Per fare un esempio, uno dei problemi principali nei casi di Ebola è il trasporto dei malati. Non è possibile, infatti, caricare persone infette su una semplice barella, perché il contatto diretto con il personale medico sarebbe scontato. Non dobbiamo infatti dimenticare che potrebbe verificarsi una emorragia di gravi dimensioni anche durante il trasporto, quindi una barella “aperta” rischierebbe di facilitare la dispersione del sangue infetto nell'ambiente. Per fortuna, una azienda di Modena, chiamata Tecnoline, ha realizzato uno speciale tipo di barella che consente l'isolamento del malato durante il trasporto, senza però peggiorarne le condizioni. Le barelle non posso essere delle semplici strutture chiuse in plastica perché sotto il Sole africano si comporterebbero come delle serre, aumentando notevolmente la temperatura dell'ambiente in cui si trova il malato. Quelle realizzate dalla Tecnoline, invece, consentono un trasporto dell'infetto priva di rischi sia per il malato stesso che per gli operatori sanitari. Questi, inoltre, possono anche agire sul malato stesso, se necessario, senza bisogno di aprire l'involucro della barella, grazie ad apposite aperture protette. La barella “originale” non era stata progettata per epidemie di questo tipo ma, appena la diffusione dell'Ebola è aumentata, Tecnoline ha ridisegnato il progetto affinché offrisse un livello di sicurezza adeguato alla situazione. Le barelle di Tecnoline sono già state richieste dall'esercito italiano, quello del Regno Unito, e diverse altre aziende che operano a vario titolo nei paesi colpiti da Ebola.

Un altro esempio particolarmente interessante arriva da Firenze. Infatti, l'istituto farmaceutico militare sta sviluppando un farmaco capace di ridurre le emorragie. Progettato soprattutto per aiutare pazienti con ferite (da taglio o da proiettile) questo tipo di medicinale, il cui principio attivo non è ancora stato reso pubblico, potrebbe ridurre anche le emorragie provocate dall'Ebolavirus e dare una possibilità di guarigione ai malati. Il ministero della difesa, però, non vuole sbilanciarsi, per non generare false speranze. Non ci viene, infatti, comunicato nemmeno a che punto siano i test in vivo. Potremo saperne di più nei prossimi mesi.

Il caso di maggiore rilevanza, però, è probabilmente quello del vaccino sviluppato da GlaxoSmithKline. Come abbiamo già detto, GSK è una multinazionale, ed è costituita da diverse altre aziende di dimensioni minori. In particolare, da alcuni anni fa parte di GSK una azienda italiana chiamata Okairos, i cui laboratori sono situati a Pomezia ed a Napoli. Sono i ricercatori di Okairos che hanno sviluppato un metodo per produrre il vaccino denominato “Chad3Ebola-Zaire”, in grado di fornire una protezione per l'epidemia di Ebola. Il cammino verso questo vaccino non è stato facile, anche perché in Europa non si può sperimentare su animali con il virus Ebola per mancanza di laboratori sufficientemente attrezzati. È per questo motivo che Okairos, dopo avere ottenuto risultati incoraggianti nei testi in vitro, ha chiesto la collaborazione dei National Institutes of Health statunitensi, che possiedono l'unico laboratorio attrezzato ed autorizzato ad eseguire sperimentazioni in vivo con questo virus. La sperimentazione sta continuando tutt'ora: al momento, ad avere ricevuto il vaccino sono poco meno di 200 persone. Una ventina a Bethesda nel Maryland, presso la sede dei NIH, circa 80 persone in Mali, sotto la supervisione di medici dell'università del Maryland, ed almeno 34 persone presso l'università di Losanna, in Svizzera. I responsabili di GSK ci hanno riferito che contano di procedere, con le dovute autorizzazioni dell'Organizzazione Mondiale della Sanità, in tempi quanto più brevi possibile: la sperimentazione di fase 2, da esercitarsi sugli operatori sanitari presenti nelle zone colpite dall'epidemia, potrebbe iniziare già tra gennaio e febbraio 2015. I test di fase 2 verranno condotti con procedure di doppio cieco, anche se naturalmente non sarà facile, considerata la situazione dei paesi in cui l'Ebola è presente. Durante tutte le fasi della sperimentazione è attualmente e sarà in futuro proprio il laboratorio di Pomezia a produrre i vaccini da inviare in qualsiasi parte del mondo li necessiti. È infatti, l'unico laboratorio che dispone della tecnologia necessaria a realizzare questi vaccini.

Riccardo Cortese
fondatore di Okairos e firmatario del brevetto di Chad3Ebola-Zaire

Questo vaccino è diverso da tutti quelli che sono stati prodotti finora per il morbillo, il tetano, o la poliomelite, solo per fare alcuni esempi. La tecnologia innovativa di Okairos si basa su un virus vivo, come molti altri vaccini, ma non punta solo a stimolare il sistema immunitario del paziente vaccinato per la produzione di linfociti adatti al virus in questione: contiene anche un “aiutante” (adjuvant, in lingua inglese) che si occupa di rafforzare la risposta immunitaria. Questo ruolo può essere svolto da diverse sostanze, al momento non sappiamo esattamente quale sia stata scelta per Chad3-Ebola Zaire. Ma è proprio grazie a questo secondo componente che il vaccino funziona davvero. È, quindi, un vaccino a “duplice azione”: se ne parla da molto tempo, a livello teorico, ma sembra che Okairos sia finalmente riuscita a sviluppare la tecnologia necessaria a produrre dei vaccini ad azione doppia.
Non sono semplici nemmeno il confezionamento ed trasporto: il prodotto deve essere conservato a -80 gradi, ed una volta riportato a temperatura ambiente può essere utilizzato solo entro alcune ore.

Il medico italiano di Emergency che è stato contagiato dall'Ebola è stato ricoverato presso l'ospedale Spallanzani, dove un team sanitario sta seguendo le procedure standard per la cura. Il medico ha infatti ricevuto il farmaco Zmapp assieme a trasfusioni di plasma sanguigno proveniente da un paziente che è già guarito dal contagio. Proprio a causa del fatto che queste due metodiche vengono utilizzate insieme, non possiamo sapere con certezza se una di queste due funzioni davvero, oppure se è solo la loro combinazione ad avere un reale effettivo curativo: per dimostrare il funzionamento di Zmapp, in particolare, sono ancora necessari diversi test. Il nostro connazionale, secondo le ultime informazioni fornite dall'Istituto Nazionale Malattie Infettive, è ancora afflitto da esantema cutaneo, febbre elevata, e disturbi gastrointestinali. Tuttavia, i valori di globuli bianchi e piastrine sembrano cominciare un leggero miglioramento. La funzione renale appare normale, ma i valori degli enzimi transaminasi sono in aumento: ciò significa che la distruzione delle cellule, con conseguenti emorragie interne è ancora in atto, perché gli enzimi transaminasi sono normalmente presenti all'interno della cellula, nel citoplasma, e si riversano nel sangue quando la permeabilità della membrana aumenta o addirittura questo strato protettivo si rompe a causa del meccanismo di azione del virus Ebola che abbiamo già descritto.

AGGIORNAMENTO: Il giorno 2 gennaio 2015, dopo 5 settimane di cura presso lo Spallanzani, il medico di Emergency è stato dimesso. Secondo i medici dell'istituto è infatti ormai guarito, dal momento che il suo sangue non contiene più tracce del virus. Naturalmente, adesso il medico è immune a questo ceppo di Ebola, e per questo motivo una certa quantità del suo plasma sanguigno verrà inviata nei paesi colpiti dall'infezione per curare altri malati. L'equipe medica dello Spallanzani ha somministrato a Francesco Pulvirenti, questo il nome del medico di Emergency, tre diverse terapie sperimentali.
FINE AGGIORNAMENTO

Ed è proprio grazie all'istituto Spallanzani ed ai medici italiani che hanno prelevato campioni del virus che è stato possibile per Clonit realizzare uno strumento innovativo per la diagnosi dell'infezione. Clonit, ci spiega il biologo ed amministratore delegato Carlo Roccio, “fa da anni consulenza per STMicroelectronics nel campo delle biotecnologie”. Da questa collaborazione è nata l'idea di realizzare un dispositivo che renda quanto più automatica e rapida la procedura di Realtime PCR, fondamentale per identificare diversi tipi di virus. Con questo strumento è possibile trovare tracce di virus Ebola, HIV, HPV, epatite, et cetera, in quasi 75 minuti (invece dei sette giorni che oggi sono necessari come minimo). Ed il dispositivo è grande più o meno quanto un mouse per computer. Il 22 dicembre verrà presentato in anteprima un prototipo che, grazie ad un braccio robotico ed un set di sei di questi dispositivi, potrà gestire in modo completamente autonomo l'analisi del sangue di sei pazienti diversi. In pratica, sarà sufficiente introdurre un portacampioni con il sangue del paziente da verificare, ed in breve tempo il dispositivo fornirà una risposta sulla presenza del virus. Non solo: il test è addirittura quantitativo. Ciò significa che è possibile stimare anche la quantità di virus presente nel sangue. Questo è di utilità eccezionale perché, visto che la procedura richiede appena un paio di ore, è possibile seguire la guarigione dei pazienti “in diretta”. I medici possono infatti controllare che il numero di capsule virali nel sangue di un paziente diminuisca con il passare del tempo. E se questo non accade, se ne accorgono immediatamente, potendo quindi prendere le dovute contromisure. “La collaborazione con lo Spallanzani”, prosegue Roccio, “è indispensabile in primo luogo perché sono esperti, ed in secondo luogo perché hanno i campioni di virus”. È proprio studiando questi campioni di Ebola che Cloneit ha potuto realizzare questa sorta di “Polaroid” della virologia, basato sui microprocessori di STMicroelectronics sviluppati a Catania. Tra le altre cose, Cloneit era già giunta alla ribalta alcuni anni fa per essere stata la prima azienda a costruire strumenti per la rilevazione dell'antrace e tra le prime nella ricerca sulla SARS. La collaborazione tra questi tre centri di eccellenza italiana (Spallanzani, Cloneit, e STMicroelectronics) continuerà nei prossimi mesi perché si prevede che dopo il 31 gennaio potrebbero essere presentati i primi dispositivi pronti all'uso.